Parrocchia di S. Lucia sul Prato
Mostra a Palazzo Pitti
Nel 1869 l'antica e famosa Compagnia di San Benedetto Bianco si trasferì dalla sua storica sede di Santa Maria Novella nei nuovi locali di via Orti Oricellari portandosi dietro il suo ingentissimo patrimonio artistico, una parte del quale è visitabile all'interno della mostra a lei dedicata " Il rigore e la grazia.
La Compagnia di San Benedetto Bianco nel Seicento fiorentino", ospitata nei locali del Museo degli Argenti a Palazzo Pitti dal 22 ottobre 2015 al 17 maggio 2016.
La presenza della compagnia prima nel territorio della parrocchia di Santa Lucia e poi, negli anni Quaranta del Novecento, la sua naturale estinzione addirittura nei locali parrocchiali a seguito di un ulteriore trasferimento hanno fatto sì che diverse opere d'arte appartenutele siano restate in loco come proprietà della nostra chiesa.
Questo evento perciò risulta particolarmente significativo per la nostra comunità parrocchiale che potrà ammirare così in un adeguato allestimento opere che già conosce, come il bellissimo Crocifisso secentesco di cartapesta da settanta anni esposto al culto sul nostro altare maggiore ma anche oggetti appartenenti oggi al patrimonio artistico della nostra chiesa che non sono mai stati esposti al pubblico
Marta Benvenuti
Organizzatori e curatori della Mostra
FRANCESCA MERZ
Presidente
Associazione culturale fund4art Firenze
Progettazione e organizzazione eventi culturali
ALESSANDRO GRASSI
Storico dell'Arte
Organizzatore della Mostra
MICHEL SCIPIONI
Storico dell'Arte
Organizzatore della Mostra
ARTE E CULTURA
Per la prima volta al pubblico riapre a Palazzo Pitti l'appartamento che ha ospitato Cosimo III e Marguerite-Luise d’Orléans con la mostra dedicata alla Compagnia di San Benedetto Bianco
Un tesoro 'segreto' ritrovato. Un nucleo di opere poco conosciute, dipinte da grandi artisti del Seicento fiorentino e accuratamente restaurate, sono restituite alla fruizione del pubblico e esposte in mostra fino a maggio prossimo negli ambienti annessi alla Cappella Palatina di Palazzo Pitti. Realizzata in epoca lorenese per volere di Pietro Leopoldo, la Cappella è ancora oggi aperta al culto, ma era visitabile fino ad ora solo in rare occasioni.
Il tesoro esposto in mostra proviene quasi interamente dal patrimonio della compagnia di San Benedetto Bianco, che è stata una fra le più importanti e prestigiose aggregazioni laicali fiorentine. Fondata nel 1357 presso il monastero camaldolese di San Salvatore, ma trasferitasi presto (1383) nel convento domenicano di Santa Maria Novella, la Compagnia entrò sotto la stretta influenza spirituale dell'ordine dei Predicatori e trovò inizialmente sede nell’area dell’attuale Chiostro Grande e poi, in via definitiva, in alcuni locali appositamente edificati da Giorgio Vasari nel 1570 all’interno del Cimitero Vecchio. In questa sede rimase fino alla costituzione di Firenze Capitale, quando il Comune decise di allargare via degli Avelli con l'abbattimento del recinto cimiteriale di Santa Maria Novella e dei locali di San Benedetto Bianco. La Compagnia continuò tuttavia la sua attività prima in un nuovo oratorio di via degli Orti Oricellari e successivamente presso la parrocchia di Santa Lucia sul Prato, dove si estinse. Uno degli ultimi atti della Compagnia fu la cessione alla Curia arcivescovile di Firenze di tutto il patrimonio artistico che aveva accumulato nel corso dei secoli, tramite commissioni dirette o attraverso donazioni dei confratelli: la maggior parte delle opere d’arte fu depositata durante la Seconda Guerra Mondiale nel Seminario arcivescovile di Cestello e lì, ancora, si trova tutt’oggi.
Il desiderio di rendere sempre più sontuoso l’oratorio e la sede della confraternita aveva infatti spinto molti confratelli a donare dipinti, oggetti sacri e paramenti. Tra i membri della Compagnia, oltre a componenti della famiglia dei Medici, nonché teologi, filosofi, letterati e scienziati, vi furono anche numerosi artisti: Matteo Rosselli, Jacopo Vignali, Carlo Dolci, il Volterrano e Vincenzo Dandini, solo per citarne alcuni. Molti di loro dipinsero per propria devozione alcune opere presentate in mostra che ben esprimono, per lo stile e la scelta dei soggetti raffigurati, la spiritualità penitente di San Benedetto Bianco, testimoniataci dalle opere a stampa e manoscritte del frate correttore Domenico Gori, quali gli Esercizi spirituali ad uso esclusivo dei confratelli, esposti in mostra.
Il Cristo sul Calvario, gli strumenti della Passione e la Croce erano i soggetti più rappresentati. Nel ricetto d’ingresso, Vincenzo Dandini aveva dipinto una pala d’altare con l’Orazione di Gesù nell’orto, poi sostituita nel 1646 da un dipinto dello stesso autore raffigurante Cristo caduto sotto la croce. Il soggetto della prima pala fu rivisitato poco dopo da Matteo Rosselli in un affresco situato nella testata di una loggetta che fiancheggiava il cortile interno della Compagnia, denominato appunto ‘orto’, in una stretta analogia con l’Orto degli ulivi dove Cristo diede principio alla propria agonia. Oltre che con i dipinti presenti in Compagnia, il tema della Passione veniva divulgato mediante piccoli quadri o immagini a stampa – ad esempio l’Ecce Homo di Carlo Dolci o il Cristo piagato del Volterrano.
La donazione più importante ricevuta dalla Compagnia è la serie di otto tele a soggetto biblico che il confratello Gabriello Zuti si era fatto dipingere per la propria abitazione nella seconda metà degli anni Quaranta del XVII secolo, e che lasciò a San Benedetto Bianco alla propria morte nel 1680. Si tratta di un ciclo unico, con capolavori di alcuni fra i maggiori artisti del Seicento fiorentino, i cui soggetti tratti dal Vecchio Testamento – scelti con l’ausilio di qualche dotto confratello – alludevano ad eventi precisi della vita familiare dello Zuti, segnata indelebilmente dalla tragedia della peste del 1630. Ricordiamo Giacobbe ed Esaù, di Lorenzo Lippi, Giaele e Sisara di Ottavio Vannini, Ritrovamento di Mosè di Jacopo Vignali, Geroboamo e il profeta Achia di Vincenzo Dandini, Ripudio di Aga di Giovanni Martinelli, Guarigione di Tobia di Mario Balassi, Susanna e i vecchioni di Agostino Melissi, Lot e le figlie di Simone Pignoni.
Una menzione particolare meritano le due tavole di Cristofano Allori (che l’odierno restauro ha meritoriamente riportato alla vita, arrestando i danni subiti nell’alluvione del 1966), raffiguranti San Benedetto e San Giuliano: esse erano in origine unite a formare la grande pala che schermava le reliquie collocate nell’enorme altare-reliquario della Compagnia e che, grazie ad un meccanismo di corte, poteva essere scenograficamente alzata per la loro ostensione.
Firenze
Luogo: Cappella Palatina, Museo degli Argenti, Palazzo Pitti
Curatori: Alessandro Grassi, Michel Scipioni, Giovanni Serafini
Enti promotori:
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Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo
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Segretariato Regionale del Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo della Toscana
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Ex Soprintendenza Speciale per il Patrimonio Storico Artistico ed Etnoantropologico e per il Polo Museale della città di Firenze
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Soprintendenza Belle Arti e Paesaggio per le Provincie di Firenze Pistoia e Prato
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Museo degli Argenti di Palazzo Pitti
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Firenze Musei
Comunicato Stampa:
Un tesoro 'segreto' ritrovato. Un nucleo di opere poco conosciute, dipinte da grandi artisti del Seicento fiorentino e accuratamente restaurate, sono restituite alla fruizione del pubblico e esposte in mostra fino a maggio prossimo negli ambienti annessi alla Cappella Palatina di Palazzo Pitti. Realizzata in epoca lorenese per volere di Pietro Leopoldo, la Cappella è ancora oggi aperta al culto, ma era visitabile fino ad ora solo in rare occasioni. La mostra costituisce una grande opportunità che vede unirsi il principio della tutela del patrimonio territoriale fiorentino con quello della sua valorizzazione, grazie ai restauri effettuati appositamente e alle nuove sale espositive, anch'esse recuperate e inserite da oggi nel circuito di visita del Museo degli Argenti.
Il tesoro esposto in mostra proviene quasi interamente dal patrimonio della compagnia di San Benedetto Bianco, che è stata una fra le più importanti e prestigiose aggregazioni laicali fiorentine. Fondata nel 1357 presso il monastero camaldolese di San Salvatore, ma trasferitasi presto (1383) nel convento domenicano di Santa Maria Novella, la Compagnia entrò sotto la stretta influenza spirituale dell'ordine dei Predicatori e trovò inizialmente sede nell’area dell’attuale Chiostro Grande e poi, in via definitiva, in alcuni locali appositamente edificati da Giorgio Vasari nel 1570 all’interno del Cimitero Vecchio. In questa sede rimase fino alla costituzione di Firenze Capitale, quando il Comune decise di allargare via degli Avelli con l'abbattimento del recinto cimiteriale di Santa Maria Novella e dei locali di San Benedetto Bianco. La Compagnia continuò tuttavia la sua attività prima in un nuovo oratorio di via degli Orti Oricellari e successivamente presso la parrocchia di Santa Lucia sul Prato, dove si estinse. Uno degli ultimi atti della Compagnia fu la cessione alla Curia arcivescovile di Firenze di tutto il patrimonio artistico che aveva accumulato nel corso dei secoli, tramite commissioni dirette o attraverso donazioni dei confratelli: la maggior parte delle opere d’arte fu depositata durante la Seconda Guerra Mondiale nel Seminario arcivescovile di Cestello e lì, ancora, si trova tutt’oggi.
Il desiderio di rendere sempre più sontuoso l’oratorio e la sede della confraternita aveva infatti spinto molti confratelli a donare dipinti, oggetti sacri e paramenti; per di più, tra i membri della Compagnia, oltre a componenti della famiglia dei Medici, nonché teologi, filosofi, letterati e scienziati, vi furono anche numerosi artisti: Matteo Rosselli, Jacopo Vignali, Carlo Dolci, il Volterrano e Vincenzo Dandini, solo per citarne alcuni. Molti di loro dipinsero per propria devozione alcune opere presentate in mostra che ben esprimono, per lo stile e la scelta dei soggetti raffigurati, la spiritualità penitente di San Benedetto Bianco, testimoniataci dalle opere a stampa e manoscritte del frate correttore Domenico Gori, quali gli Esercizi spirituali ad uso esclusivo dei confratelli, esposti in mostra.
Il centro della spiritualità della Compagnia, tanto per l’originaria derivazione benedettina quanto per l’influsso del Gori, era il sacrificio di Cristo, sommo modello di perfezione a cui ci si poteva avvicinare con un lento e faticoso processo di elevazione spirituale, svolto attraverso penitenze e lunghe visualizzazioni interiori. La meditazione frequente di quel mistero doveva sortire nei confratelli l’effetto di una vera e propria ‘immedesimazione’, al punto da provare gli stessi ‘affetti’ – cioè i sentimenti – sperimentati da chi fu presente alla Passione, come la Vergine Maria, san Giovanni e lo stesso Gesù. Per questo motivo in San Benedetto Bianco erano presenti diverse immagini che ripercorrevano le tappe principali della Passione ed esortavano continuamente i confratelli alla mortificazione spirituale e corporale di se stessi.
Il Cristo sul Calvario, gli strumenti della Passione e la Croce erano i soggetti più rappresentati. Nel ricetto d’ingresso, Vincenzo Dandini aveva dipinto una pala d’altare con l’Orazione di Gesù nell’orto, poi sostituita nel 1646 da un dipinto dello stesso autore raffigurante Cristo caduto sotto la croce. Il soggetto della prima pala fu rivisitato poco dopo da Matteo Rosselli in un affresco situato nella testata di una loggetta che fiancheggiava il cortile interno della Compagnia, denominato appunto ‘orto’, in una stretta analogia con l’Orto degli ulivi dove Cristo diede principio alla propria agonia. In una stanza situata dietro la chiesa principale e dove erano collocati i confessionali, venne posta nel 1653 la tela che qui è attribuita ad Agostino Melissi, raffigurante la Flagellazione di Cristo alla colonna, il cui soggetto va inteso in rapporto alla pratica della ‘disciplina’ – cioè l’autofustigazione – che i confratelli praticavano in quell’ambiente (la corda sul primo piano del dipinto la richiama esplicitamente).
Oltre che con i dipinti presenti in Compagnia, il tema della Passione veniva divulgato mediante piccoli quadri o immagini a stampa – ad esempio l’Ecce Homo di Carlo Dolci o il Cristo piagato del Volterrano, artisti entrambi membri di San Benedetto Bianco – destinati spesso a confratelli amici, per uso privato e domestico, come continui richiami visivi a rivolgere il pensiero al sacrificio amoroso del Cristo, e al suo patimento, atto di redenzione per l’umanità.
La donazione più importante ricevuta dalla Compagnia è la serie di otto tele a soggetto biblico che il confratello Gabriello Zuti si era fatto dipingere per la propria abitazione nella seconda metà degli anni Quaranta del XVII secolo, e che lasciò a San Benedetto Bianco alla propria morte nel 1680. Si tratta di un ciclo unico, con capolavori di alcuni fra i maggiori artisti del Seicento fiorentino, i cui soggetti tratti dal Vecchio Testamento – scelti con l’ausilio di qualche dotto confratello – alludevano ad eventi precisi della vita familiare dello Zuti, segnata indelebilmente dalla tragedia della peste del 1630. Ricordiamo Giacobbe ed Esaù, diLorenzo Lippi, Giaele e Sisara di Ottavio Vannini, Ritrovamento di Mosè di Jacopo Vignali, Geroboamo e il profeta Achia di Vincenzo Dandini, Ripudio di Aga di Giovanni Martinelli, Guarigione di Tobia di Mario Balassi, Susanna e i vecchioni di Agostino Melissi, Lot e le figlie di Simone Pignoni.
Una menzione particolare meritano le due tavole di Cristofano Allori (che l’odierno restauro ha meritoriamente riportato alla vita, arrestando i danni subiti nell’alluvione del 1966), raffiguranti San Benedetto e San Giuliano: esse eranoin origine unite a formare la grande pala che schermava le reliquie collocate nell’enorme altare-reliquario della Compagnia e che, grazie ad un meccanismo di corte, poteva essere scenograficamente alzata per la loro ostensione.
La mostra, come il catalogo edito da sillabe, è a cura di Alessandro Grassi, Michel Scipioni, Giovanni Serafini, ed è promossa dal Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo con il Segretariato regionale del Ministero dei Beni e delle Attività culturali e del turismo della Toscana, la Ex Soprintendenza Speciale per il Patrimonio Storico, Artistico ed Etnoantropologico e per il Polo Museale della città di Firenze, la Soprintendenza Belle Arti e Paesaggio per le Province di Firenze, Pistoia e Prato, il Museo degli Argenti di Palazzo Pitti, e Firenze Musei.
“Il Rigore e la Grazia” a Palazzo Pitti, il tesoro segreto ritrovato Cultura
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Daniela Cresti
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venerdì 23 ottobre, 2015
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Cappella Palatina, Compagnia di San Benedetto Bianco, Il Rigore e la Grazia, mostra, Palazzo Pitti, Seicento fiorentino
Firenze - Una mostra di nicchia, con uno sguardo particolare alla storiografia della Compagnia di San Benedetto Bianco e una visione ricostruttiva di testimonianze, anche isolate e discontinue, per “…ricucire i singoli e preziosi frammenti in una narrazione significante…” (Soprintendente Belle Arti e Paesaggio Alessandra Marino).
Si tratta di un nucleo di opere d’arte del Seicento fiorentino mai esposte e che fino a maggio 2016 potranno essere ammirate negli ambienti restaurati annessi alla Cappella Palatina di Palazzo Pitti. Realizzata in epoca lorenese per volere di Pietro Leopoldo, la Cappella era visitabile fino ad ora solo in rare occasioni. La mostra costituisce una grande opportunità che vede unirsi il principio della tutela del patrimonio territoriale fiorentino con quello della sua valorizzazione, grazie ai restauri effettuati appositamente nelle nuove sale espositive, anch’esse recuperate e inserite da oggi nel circuito.
36 tavole di cui i due terzi restaurate , tre sale da visitare, tre giovani curatori ed un allestimento consono al rigore e la grazia verso cui lo spirito degli artisti e dei committenti anelava. Ognuno dei tre curatori, Alessandro Grassi, Michel Scipioni e Giovanni Serafini si è occupato di aspetti diversificati dell’esposizione.
Il primo ha seguito le vicende della sede e degli arredi della Compagnia di San Benedetto Bianco dal periodo in cui questa si trasferì a Firenze (1384) nel Convento domenicano di Santa Maria Novella fino allo scioglimento avvenuto nel 1940.
Storia, Capitoli e Pratiche sono state seguite ed illustrate da Michel Scipioni che descrive in un ottimo saggio la fisionomia dei membri della Compagnia con una dinamica precisa che partendo da una adesione di ceto medio e artigiano viene incrementata, nel XVII secolo da membri provenienti da classi più alte, sia per cultura che per dignità nobiliare.
L’arte e la spiritualità della Compagnia sono state studiate ed attenzionate da Giovanni Serafini che, come spiega nel testo in catalogo, si esprimono in una complessa collezione di arte sacra “ caso raro nella storia dell’arte fiorentina del XVI e XVII secolo, non solo per la qualità e per il numero…ma anche per la rappresentazione sincera del pensiero e della spiritualità” di questa longeva compagnia laicale fiorentina.
Le sale espositive si estendono alla sinistra della Cappella. Il percorso espositivo inizia con molte tavole ottagonali da cui bene si percepiscono le linee guida che animano la Compagnia e gli artisti. Disciplina, scrupolo, mestiere e spiritualità uniscono committenza ed arte nella ricerca eterna di perfezione e anelito alla grazia.
La meta è l’uscita dal buio. Un’oscura implosione culturale post rinascimentale guida la rappresentazione dallo sfondo oscuro e tenebroso alla luce della bellezza e del colore. Le immagini ravvivate dal restauro recentissimo sembrano uscire, in maniera tridimensionale, dalla scena di base e ci appaiono nella loro luminosità dinamica.
In Lot e le figlie (1646/47) di Simone Pignoni esprime nelle figure delle fanciulle e nel candore dei seni turgidi l’alta capacità espressiva dell’artista. sulla tela si raffigura l’episodio biblico di Lot e, con una pittura rapida e decisa l’artista trova accenti di estrema sensualità. Allo stesso tempo lo sguardo gelido della figlia che lo circuisce facendolo bere del vino dichiara tutta la negatività morale dell’atto incestuoso. Splendente il panneggio che avvolge Lot.
Un vero capolavoro è il Ritrovamento di Mosè (1645/46) del maestro fiorentino Jacopo Vignali
Qui è raffigurato l’episodio del libro dell’Esodo in cui il piccolo Mosè, abbandonato nelle acque del Nilo in una cesta di giunchi, viene trovato dalla figlia del faraone che stava facendo il bagno con le sue ancelle; impietosita per la sorte del bambino, deciderà di adottarlo. La principessa ha qui l’aspetto di una nobildonna fiorentina del tempo, ornata di splendidi monili, e persino l’ancella a cui ha ordinato di prendere la cesta esibisce l’abbigliamento vistoso, con nastri e fiocchi colorati, di una cortigiana dell’epoca.
La seconda sala accoglie il visitatore con la bellissima tela di Agostino Melissi, Flagellazione del cristo alla colonna(1653). Composizione concitata , con effetti luministici e chiaroscurali di grande pregio.
Il tema della flagellazione di Gesù si collegava all’ambiente per cui l’opera era stata dipinta, la cosiddetta ‘stanza dei confessionali’, situata dietro l’oratorio della Compagnia e rinnovata appunto nel 1652. Qui i confratelli erano soliti praticare la ‘disciplina’ (cioè l’autofustigazione) in espiazione dei propri peccati e come strumento di unione alle sofferenze patite da Cristo.
Nella Terza sala attira l’attenzione il crocifisso in Cartapesta policroma (1651) di Ferdinando Tacca.
Realizzato dall’artista nella duttile e leggera cartapesta sulla scia della produzione inaugurata dal padre Pietro, questo Crocifisso fu eseguito per essere portato in pellegrinaggio a Loreto dai confratelli di San Benedetto Bianco. Pur continuando a svolgere saltuariamente tale funzione processionale, il Crocifisso fu collocato all’altar maggiore della Compagnia, andando a formare – con i Dolenti dipinti da Matteo Rosselli circa dieci anni prima – un insieme di straordinario pathos espressivo, che oggi viene finalmente ricomposto
Una menzione particolare meritano le due tavole di Cristofano Allori (che l’odierno restauro ha riportato alla vita dopo l’alluvione del 1966), raffiguranti San Benedetto e San Giuliano: esse eranoin origine unite a formare la grande pala che schermava le reliquie collocate nell’enorme altare-reliquario della Compagnia e che, grazie ad un meccanismo di corte, poteva essere scenograficamente alzata per la loro ostensione.
Così si chiude il sipario di un percorso artistico per un pubblico raffinato, molto attento e capace di apprezzare quel periodo spesso trascurato che è stato il ‘600 fiorentino.
Il Rigore e La Grazia - La Compagnia di San Benedetto Bianco nel Seicento Fiorentino